C’era un tempo in cui la pianura lombarda era solcata da un grande specchio d’acqua: il lago Gerundo, oggi scomparso, tra le province di Lodi e Bergamo. Proprio in queste acque torbide, la leggenda racconta, viveva Tarantasio, un drago terrificante che incuteva paura e morte.
Tarantasio, descritto come un’enorme creatura serpentiforme, con corna possenti, coda squamata e zampe palmate, sputava fuoco dalla bocca e diffondeva un fiato pestilenziale capace di appestare l’aria e portare malattie, come la cosiddetta “febbre gialla”. Si dice che si cibasse di bambini e che fosse solito rovesciare le barche, rendendo ancora più sinistro un lago già circondato da paludi e miasmi.
La tradizione popolare lega la sorte del drago alla fine del lago stesso: Tarantasio fu sconfitto — secondo alcune versioni — da san Cristoforo, da Federico Barbarossa o, più poeticamente, da un Visconti. Quest’ultimo avrebbe poi scelto come simbolo araldico proprio la creatura vinta, trasformandola nel celebre biscione con il bambino in bocca, ancora oggi emblema milanese riconosciuto in tutto il mondo.
Le fonti storiche parlano di Tarantasio già nell’XI secolo, grazie al monaco Sabbio che ne descrisse le gesta a Lodi, mentre nel Seicento il poeta Filiberto Villani riprese la storia in versi memorabili, raccontando di un drago che “sputava veleno e divorava uomini”. Anche l’arte ha lasciato tracce: affreschi medievali a San Marco a Milano e ad Almenno San Salvatore sembrano rappresentare il drago sullo sfondo del lago Gerundo.
Tarantasio, mostro del lago Gerundo
Ma la leggenda di Tarantasio ha lasciato un’eredità ancora più sorprendente, arrivando fino ai nostri giorni in una forma inaspettata. L’immaginario dello scultore Luigi Broggini, infatti, prese ispirazione proprio dal drago del lago Gerundo per creare l’iconico cane a sei zampe che, prima come simbolo dell’Agip e poi di Eni, sarebbe diventato uno dei marchi industriali italiani più famosi e riconoscibili al mondo. Un animale mitologico che da mostro terrificante si è trasformato in simbolo di energia, forza e progresso.
Non è tutto: la leggenda narra che le spoglie di Tarantasio, o di altri draghi della stessa “specie”, fossero conservate a lungo nelle chiese di Lodi, Pizzighettone, Almenno San Salvatore e Sombreno. Di queste ossa, ritenute “costole del drago”, alcune vennero studiate in età moderna e identificate come resti di mammut, confermando come dietro ogni mito possa celarsi un frammento di realtà.
Perfino la letteratura contemporanea si è lasciata sedurre dal fascino del drago del lago Gerundo, che appare nel romanzo fantasy Donna di spade di Giuseppe Pederiali.
Oggi il nome di Tarantasio sopravvive anche nella toponomastica, in una frazione di Cassano d’Adda chiamata Taranta, a testimonianza di quanto questa leggenda sia ancora viva nell’immaginario collettivo lombardo. E chissà che, ogni tanto, nel vento che attraversa la pianura non riecheggi ancora l’antico respiro di fuoco del drago.