Non ho mai avuto bisogno che un teatro, un museo o un ristorante mi imponessero di evitare ciabatte e pantaloncini corti. Perché, semplicemente, non mi è mai passato per la testa di andarci vestito così.
Le ciabatte – diciamolo chiaramente – vanno bene al mare, in piscina, o al massimo per buttare la spazzatura. Non in città. Le trovo fastidiose alla vista e quasi offensive nei contesti pubblici. E i bermuda? Nemmeno da ragazzo li ho mai indossati per andare a scuola o all’università. Figuriamoci per lavorare, per entrare in una chiesa o in un museo, o peggio ancora per sedermi a teatro.
A mio figlio ho sempre chiesto di usare il buon senso: a scuola pantaloni lunghi, magari leggeri d’estate, ma pur sempre lunghi. Per rispetto degli altri e di se stesso. E non parlo di etichette borghesi o di imposizioni antiquate, ma di una forma minima di decoro.
La recente decisione del Teatro alla Scala di Milano di vietare l’ingresso a chi indossa bermuda, ciabatte o canottiere ha fatto discutere. Ma per me è una scelta ovvia, persino tardiva. Un teatro come la Scala – simbolo internazionale dell’eleganza italiana – non può e non deve diventare il prolungamento di una spiaggia affollata o il set di una sagra agostana.
Certo, si parla spesso degli stranieri. Ma è l’italiano medio a farmi più rabbia. Perché? Presto detto: siamo o non siamo la patria della moda? E allora mi chiedo: che moda è quella di andare al bar, al museo o a teatro in infradito e canottiera?
Non servirebbero regole scritte, bas basterebbe il buon senso. Ma visto che molti sembrano averlo perso per strada, ben vengano regole come quella della Scala. Il rispetto per un luogo – sacro o laico che sia – inizia da come ci si presenta. E no, non serve lo smoking: basta la decenza.

