“Rispetto”, dici? Parola nobile, altissima. Ma anche terribilmente ambigua. La usano tutti, spesso a sproposito. Si invoca, si pretende, si fraintende. E in alcuni casi… si confonde persino col silenzio, la paura o il servilismo.
C’è chi lo pretende perché ha più anni, più muscoli, più follower. Chi lo invoca quando parcheggia in doppia fila: “Eh, un attimo solo, porti rispetto!” (alla sua fretta, si suppone). C’è chi lo brandisce come una clava nei dibattiti sui social: “Rispetto per le opinioni altrui!” – salvo poi negarlo subito dopo a chi non la pensa allo stesso modo. E poi c’è lui, il classico: “Io ti rispetto, ma…” – che è come dire: “Io ti voglio bene, però…” e sappiamo tutti che dopo il però arrivano le bombe.
Insomma, il rispetto viene usato come pretesto, come minaccia, come giustificazione. Ma raramente viene compreso nella sua essenza più profonda.
Eppure il rispetto – quello vero – è una cosa seria. O almeno dovrebbe esserlo. Non ha nulla a che fare con l’autorità imposta, la gerarchia o il consenso obbligato. Il rispetto è un atto di riconoscimento. È vedere l’altro come essere umano, degno in quanto tale. Non “se” ti somiglia, non “se” la pensa come te, non “se” ti fa comodo. Ma perché esiste.
Nel contesto sociale attuale, questa parola assume una valenza decisiva. In un tempo in cui la velocità dell’informazione supera quella del pensiero, in cui il dibattito pubblico è spesso un’arena, il rispetto è diventato l’anello mancante tra il diritto di parola e la capacità di ascolto. Tra la libertà individuale e la convivenza collettiva. Tra la diversità e la dignità.
Rispetto significa non ridurre l’altro a una caricatura. Non usare etichette come sostituti del confronto. Significa sapere che dietro ogni scelta, ogni storia, ogni volto, c’è una complessità che non ci è data conoscere del tutto.
Nel mondo digitale, il rispetto si misura anche nei toni, nei tempi, nella capacità di non trasformare ogni disaccordo in una guerra. Significa non riversare frustrazioni su sconosciuti a colpi di commenti, e non trasformare l’empatia in debolezza.
Nel mondo reale, il rispetto è il cemento invisibile che tiene insieme le relazioni. Non si impone, si coltiva. E parte, sempre, dal riconoscimento dell’altro come fine, non come mezzo.
È un esercizio quotidiano. Faticoso. Controcorrente. Ma necessario. Perché non si costruisce nessuna società equa, nessuna democrazia viva, nessuna comunità umana senza rispetto. Senza il rispetto per le donne, per chi è più fragile, per chi ha storie diverse, per chi è ancora in cerca di un posto nel mondo.
E no, non basta pretenderlo. Bisogna praticarlo. Anche quando costa. Soprattutto allora.
In fondo, il rispetto è una di quelle parole che si capiscono meglio quando non vengono dette, ma vissute. E forse, se imparassimo davvero a rispettarci, ci accorgeremmo che vivere insieme è molto più semplice – e molto più bello – di quanto sembra.