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Quelli che andavano al Moreschi

ITC Nicola Moreschi: questo il nome della scuola che ho frequentato sul finire degli anni ’80.

Siamo ovviamente a Milano in via san Michele del Carso.

Sia chiaro: la scuola esiste ancora oggi ed è diventata, mi pare, una struttura doppia: da una parte liceo dall’altra credo sempre Istituto Tecnico.

Ci passo davanti abbastanza spesso e, come allora, trovo l’edificio imponente, grandissimo e vedo proprio come un tempo, un numero impressionante di studenti che entrano ed escono.

All’epoca in cui frequentavo io il Moreschi molte cose mi erano ignote: dalla zona che conoscevo giusto per i tratti che facevo a piedi dalla fermata di Conciliazione alla storia di questa scuola. Che per inciso oggi non racconterò, perchè quello su cui mi vorrei soffermare è altro.

Quelli che andavano al Moreschi

All’epoca il Moreschi era una scuola “rigida”: è vero che di anni ne sono passati tanti e che probabilmente quanto sto per dire vale anche per altre scuole, ma ho la sensazione che anche il Moreschi si sia ammorbidito.

All’epoca, lo confesso, entrare qui ogni mattina dava un po’ l’idea di entrare non dico in una caserma ma quasi: c’erano leggende sulle catacombe degli studenti più indisciplinati che i ragazzi di quinta hanno raccontato ai primini per anni. Niente di più falso. Forse.

C’era un non so che di particolare ad entrare in alcune aule che riportavano attaccato alla porta le targhette con i nomi militari e quei soffitti alti, la eco che si creava anche quando si sussurrava, uscendo di nascosto dalla classe durante le ore di supplenza, lasciavano un po’ attoniti.

E come non ricordare l’aula di dattilografia con quelle macchine che, sul finire degli anni ’80 erano già archeologia industriale. Io, ve lo dico, mi ero talmente innamorato della materia che in seconda l’ho pure data a settembre. Non volevo perdermene neanche un minuto!

La palestra, ne volgiamo parlare? Ai miei tempi il campo esterno era vietato. Non che ci fosse un regola, almeno da quanto ne so, ma fuori a noi non ci hanno mai portato. Probabilmente non ci meritavano l’ora d’aria. Ma ricordo perfettamente i gradini proprio sotto il canestro: un mio ginocchio è ancora lì, da qualche parte.

Si scherza evidentemente: i ricordi sono tanti, tantissimi. E non posso non menzionare alcuni professori che hanno lasciato un segno indelebile. Da quello di italiano che all’epoca inutilmente cercò di farmi apprezzare il Pascoli, a quella di Economia e Diritto che ha segnato indelebilmente il mio futuro, a quella di Tecnica che esordiva tutte le volte che entrava in classe con un “ci salutiamo?” che non era una domanda ma un ordine. 

Eh già, questo è un aspetto che credo oggi sia cambiato: all’epoca si si alzava in piedi ad ogni ora a salutare i professori. L’ho sempre fatto senza nessun problema: lo ritenevo ieri come lo ritengo oggi, una forma di rispetto magari un po’ arcaica, ma perchè no, dovuta nei confronti di chi ha il compito di formare giovani menti.

Ma non tutto è oro quello che luccica, sia chiaro: la professoressa di geografia per esempio, nel biennio, era il classico esempio del professore con il quale io oggi litigherei ancora di più di quanto, se possibile, ho fatto all’epoca (con la differenza che quando ero studente dovevo mettere un freno proprio per un discorso di educazione e rispetto, anche se ammetto, a volte vacillava). Lei non voleva che pensassimo in modo diverso dal suo: se lei diceva bianco era bianco, anche se a tutti gli effetti era blu. Non mi andava allora, figuriamoci oggi.

Ah, caro Moreschi. Confesso che ogni tanto, passando di lì, una giornata da studente con i miei vecchi compagni e quei professori, se fosse possibile la farei davvero con piacere!

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