Quasi incastrata nella placida e signorile via Sant’Antonio, a due passi dall’università Statale, la chiesa di Sant’Antonio si presenta con una facciata spoglia, sobria e incompiuta (è ottocentesca, opera di Giacomo Giuseppe Tazzini).
Eretta nel ‘300 come parte dell’omonimo convento dell’ordine ospedaliero degli Antoniani, conserva poche tracce di questo periodo e del successivo rifacimento del 1456: il campanile (sulla cui cima brilla l’insegna degli Antoniani: la lettera greca tau) e il chiostro che, nonostante gli interventi ottocenteschi, conserva le eleganti forme di gusto bramantesco con fregi in terracotta a stampo dei primi del ‘500.
Nell’ospedale su cui è edificata la chiesa si curavano, con applicazioni di unguento derivato dal grasso di maiale, i contagiati dal cosiddetto fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio. I maiali erano considerati a tal punto preziosi da garantire ai monaci, a partire dal 1416, un singolare privilegio: quello di farli pascolare liberamente nella zona attorno al convento e all’ospedale, affidandone il sostentamento alla carità pubblica.
A metà del ‘400 Francesco Sforza fonda l’ospedale Ca’ Granda per riunire in un unico polo tutti i piccoli ospedali della città: il convento perde così la sua funzione.
Nel 1582, in seguito all’affidamento del convento ai Teatini, la chiesa viene ricostruita su progetto di Dionigi Campazzo: pianta a croce latina, una sola navata e cappelle laterali, tre per lato. Nel corso del ‘600, suo periodo di massima fioritura, viene investita da un prodigioso sistema decorativo che riguarda volta e cappelle e che non tralascia un solo centimetro. Le opere di Giovanni Ambrogio Figino, del Campi, del Morazzone, di Lodovico Carracci, del Cerano, dei fratelli Carloni e dei Procaccini (tra gli altri) ne fanno un emblema del Barocco milanese e lombardo.
Una nota, in chiusura: qui Mozart il 17 gennaio 1772 (o 1773, storiografia incerta) eseguiva in prima assoluta il mottetto Exsultate, Jubilate. Sopra il portale d’ingresso c’è ancora il suo organo.